Bene…recentemente ho riletto alcune delle avventure di Holmes e Watson, con altri occhi e altre conoscenze rispetto a diversi (rimaniamo vaghi…) anni fa e soffermandomi su alcuni aspetti comportamentali e relazionali di Sherlock mi è venuta in mente una domanda.
Sherlock Holmes poteva avere l’ADHD?
Nel rispondere a questa domanda prendo in considerazione solo l’Holmes originale, ovvero quello dei libri di Conan Doyle, in quanto molto è stato scritto e rappresentato in altre forme (serie tv, film, teatro, ecc…).
Ad esempio, nella serie “Sherlock”, una serie che ripropone le opere di Conan Doyle in un contesto moderno, un Holmes interpretato da Benedict Cumberbatch si descrive come “sociopatico iperattivo”.
Non tanto la parte del “sociopatico”, ma la parte dell’“iperattivo”, potrebbe essere una potenziale prova a favore della tesi inziale, ma volendo prendere in considerazione solo l’Holmes dei libri non ne terrò conto.
Ma cominciando dall’inizio…
Che cosa è l’ADHD?
L’ADHD, Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività, rientra nella categoria dei disturbi del neurosviluppo e, in letteratura, è presente nel 5% dei bambini.
Il DSM 5, il manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali, individua come sintomi principali l’incapacità a mantenere l’attenzione, comportamenti impulsivi e disregolazione emotiva.
Da questi criteri derivano 3 sottocategorie differenti:
- ADHD con predominanza di disattenzione quando il problema centrale del bambino è proprio il deficit attentivo. L’attenzione focalizzata e l’attenzione sostenuta risultano essere le più compromesse, ma anche funzioni esecutive, come la pianificazione e la memoria di lavoro, sono deficitarie. Questa discontinuità dell’attenzione compromette l’apprendimento, non permette lo sviluppo di abilità cognitive come il problem solving e di strategie comportamentali adeguate ad instaurare relazioni soddisfacenti con gli adulti ed i compagni.
- ADHD con predominanza di impulsività e iperattività quando si riscontra nel bambino un’attivazione motoria eccessiva ed inappropriata, parla continuamente e ha difficoltà nell’inibizione delle risposte e nel rispettare regole e turni.
- ADHD di tipo combinato, che presenta entrambe caratteristiche miste di entrambe le sottocategorie precedenti
ADHD nell’adulto
Se una volta si pensava che questi sintomi potessero poi “scomparire” (o mitigarsi molto) con la crescita e lo sviluppo, le evidenze scientifiche ci mostrano che, al contrario, possono proseguire con l’età adulta.
Circa il 4-5% degli adulti ha una diagnosi di ADHD e, in questo caso, la sintomatologia non è identica a quella mostrata nell’infanzia, ma fanno la loro apparizione nuove particolarità che caratterizzano il quadro adulto.
Le caratteristiche che maggiormente si presentano nell’adulto sono:
- Disattenzione che si manifesta in diverse forme come scarsa capacità nel prestare e mantenere a lungo l’attenzione e nel portare a termine i compiti, distraibilità, tendenza ad evitare impegni che richiedono un prolungato sforzo mentale, difficoltà a focalizzarsi sul tema principale di un discorso o di una situazione, ecc…
- Agitazione, difficoltà a stare seduto, impulsività, non rispettare i turni di parola, essere logorroici e parlare senza “filtri”, disorganizzazione nel pensiero e nell’azione, frustrazione immediata di fronte a rumori o a determinate situazioni sociali
- scarse capacità sociali e di lettura delle proprie e altrui emozioni
- sensazione di noia e senso di insoddisfazione, disregolazione emotiva
Tutto ciò porta la persona a convivere con un forte senso di disagio e ad avere maggiori probabilità di avere difficoltà nel lavoro, nelle relazioni e di autostima.
ADHD e le neurodivergenze
La breve analisi fatta fino ad ora sull’ADHD tiene conto in maniera particolare della visione “da manuale diagnostico”, quindi molto clinica e per certi aspetti molto rigida, nonché centrata su tutto ciò che non può far altro che compromettere il comportamento sociale, relazionale, lavorativo e di rapporto con se stesso/a della persona.
Dal quadro presentato, infatti, potremmo già rispondere alla domanda dicendo con assoluta certezza che Sherlock Holmes non rientra in questa descrizione!
Il discorso è più lungo e complesso, l’ADHD non si esaurisce in una serie di sintomi che mina il funzionamento dell’individuo, anzi, ora dovremmo andare oltre la catalogazione nosografica e non parlare più di sintomi.
L’ADHD si configura come una neurodivergenza, temine coniato nel 1997 e che si sta diffondendo sempre di più nel mondo scientifico e non solo.
Neurodivergenza è un termine che indica le persone ha hanno un funzionamento cerebrale (modalità di elaborare le informazioni e di apprendere) diverso rispetto a quello che viene considerato standard (o tipico). Si tratta di una condizione che si manifesta in molte forme diverse, da quelle più lievi a quelle più invalidanti, e non sempre sono svantaggiose per l’individuo.
Le caratteristiche neurodivergenti, infatti, possono anche essere una preziosa risorsa e configurarsi come punti di forza da un punto di vista adattativo ed evolutivo.
Recenti studi hanno osservato che i soggetti con ADHD possono avere livelli di creatività e una propensione all’innovazione maggiori rispetto a persone di pari età e scolarità non ADHD. Possono avere maggiori abilità visuo-spaziali, da cui deriva la capacità di notare anche i più piccoli dettagli, possono rimanere iper-concentrati su uno specifico compito (hyperfocus) e non rendersi conto dello scorrere del tempo fino a quando non l’hanno portato a termine, possono avere un QI più alto della media, e molti altri.
Da questo breve elenco, già possiamo riconoscere alcune caratteristiche che tornano a dare dignità alla domanda iniziale, e quindi…
Sherlock Holmes poteva essere una persona con ADHD?
Proviamo dunque a fare questo esercizio!
Nella descrizione che fa Conan Doyle dei comportamenti di Sherlock Holmes, nell’arco dei libri e dei racconti, alcuni potrebbero andare a favore di questa tesi.
Primo fra tutti l’hyperfocus!
Una delle principali caratteristiche del detective è quella di riuscire a rimanere totalmente assorbito dal caso a cui sta lavorando, tanto da arrivare a dimenticare di mangiare o di dormire.
Questo stato di concentrazione non lo raggiunge solo quando si tratta di lavoro, ma anche nelle attività più ricreative, tipiche di Holmes, come suonare il violino o fumare.
L’analisi dei dettagli.
Quasi nulla sfugge all’occhio analitico di Sherlock Holmes, famosa la sua frase, rivolgendosi all’amico Watson, “Lei vede ma non osserva”.
Che siano impronte, segni impercettibili sugli oggetti, espressioni facciali e altri dettagli relativi alla persona, la capacità che ha Holmes di notare ogni particolare, e trarne informazioni utili per il caso, è considerata magica da chi non riesce a fare lo stesso tipo di osservazioni, per poi diventare “banale” una volta che il detective ha spiegato i suoi ragionamenti.
Impulsività e iperattività
Difficilmente, nell’atteggiamento pacato, freddo e calcolatore che contraddistingue Holmes, possiamo riscontrare elementi di impulsività.
Nelle varie avventure è capitato anche al detective di fare degli errori di valutazione, perché è giunto alle conclusioni dei suoi ragionamenti senza avere tutti gli elementi, ma in questi rari casi, più che parlare di impulsività, questi errori sono più un espediente narrativo utilizzato dall’autore per far sembrare il suo personaggio più umano (a chi non capita mai di sbagliare dopotutto…).
Diverso è il discorso sull’iperattività.
Sherlock Holmes, infatti, è sempre “in movimento” non solo da un punto di vista motorio, ma soprattutto considerando l’attività mentale.
Holmes si deve sempre mantenere “attivo”, dedicandosi ai casi, suonando, facendo esperimenti, entrando in situazioni scomode nei peggiori quartieri di Londra, pensando oppure facendo ricorso alla cocaina.
Watson rimprovera spesso Holmes per questo suo insano “passatempo” (all’epoca ancora non si conoscevano in maniera dettagliata gli effetti devastanti della droga, anzi…), ma l’effetto che ricercava con l’utilizzo della sostanza non era quello di essere sovra-stimolato, al contrario, lo stimolante lo aiutava a calmarsi, ad uscire da uno stato di stagnazione mentale che è la cosa che più agita il detective.
Tirando le somme, sembra che ci siano molti punti a favore per rispondere “SI” alla domanda inziale, ma possiamo trovare anche punti che mettono in dubbio una risposta certa come, ad esempio:
- Holmes non mostra incapacità di pianificazione o di portare a termine un suo obiettivo
- Riesce a mantenere il controllo delle sue emozioni e dei suoi comportamenti anche nelle situazioni più critiche
- Riesce a lavorare su più casi contemporaneamente dimostrando di non perdere un solo dettaglio di ognuno di loro, dando dimostrazione di una memoria di lavoro particolarmente efficace
- Come già espresso, difficile trovare esempi evidenti di comportamenti impulsivi
- Anche se Holmes è un tipo piuttosto solitario, che ha fatto entrare nella sua vita il dott.Watson e pochi altri, questa sua caratteristica non è segno di una incapacità di socializzazione